Floriano De Santi- Marcello Lani
Molto diverso dall'immediatezza o spontaneità impulsiva della reazione emozionale, il mondo pittorico e grafico di Marcello Lani è governato da quello che Pascal nei Pensieri chiamava jugement, cioè espressione della perfetta autenticità della coscienza. Il giudizio del filosofo francese non era né pura finesse né pura géométrie, bensì continuo confronto mirante ad appianare le diversità quantitative nell'unitario livello della qualità.
Nei fogli di Lani ogni cosa è disposta secondo un ordine che avanza senza grandi soprassalti, secondo forze che si dirigono in direzioni diverse, ma non arrivano mai a una lacerazione dello stilema espressivo: pochi temi portati però sempre più in profondità, ridotti sempre più all'essenza dei loro enunciati; e le immagini graduate nel modulare per brevi moti, per spostamenti di corto raggio, che un nitido sentimento del tempo evidenzia come durata fenomenica. In questo mondo le variazioni avvengono secondo il modificarsi dell'intensità della poiesis, dei valori del segno e del colore, che danno all'artista urbinate la sicurezza per rarefare o bloccare maggiormente l'immagine, proprio come un tema con oscillazioni in cui le successive elaborazioni dello spartito iconico non indeboliscono o immiseriscono la prima idea. Così risultano, quelle immagini, o come investite da una luce lunare o dalla luce della memoria, dalla luce del giorno o da una luce rimasta lì come la polvere sulla superficie di un vaso di viole o di un ramo secco di cardo.
Sono oggetti sempre al di là della luce dell'ambiente dove si trovano, come se – ad esempio negli acquarelli Fantasma ducale del 2000 o Omaggio ad Urbino dell'anno seguente – il profilo del capoluogo montefeltresco fosse una finestra aperta su un altro pianeta. Senonchè, questa visione che si muove con lentezza, con pazienza, con solitudine, si rivela poi ricca di una grande molteplicità; poco basta a cambiare la sostanza delle immagini così che la ripetizione appare un sigillo di forza memoriale e la monotonia diventa una variazione poetica ininterrotta. Tali sono anche i grandi artisti che Lani ama, che presiedono al suo lavoro: Corot dipinge quasi sempre lo stesso soggetto, un bosco, delle acque e un cielo carico di luce; Leonardo Castellani ripete di continuo la struttura dei suoi paesaggi lirici, i gruppi di alberi e di cespugli come cattedrali luminose; Morandi varia appena il posto, l'angolazione e il dramma dei consueti vasi e bottiglie; De Stael si accanisce sulle semplici e assolute zone di materia che formano le sue hautes pates.
Nell'opera di Lani emergono due temi fondamentali, le due linee secondo cui essa si svolge; due fasce di uno stesso lavoro, legate da una quantità di rapporti, di rimandi formali e dalla rete di significati, ma sostanzialmente diverse: il paesaggio e la natura morta. Ad eccezione di poche figure dipinte e disegnate, e nelle quali poi è molto veloce il trapasso della silhouette antropomorfa alla natura, ad eccezione di quei pochi quadri, ideati per lo più subito dopo aver conseguito alla fine degli anni Cinquanta il diploma alla «Scuola del Libro» di Urbino, la sua produzione creativa è fatta di vedute e di oggetti. L'unità della koinè figurativa dell'artista si insinua, si separa, all'interno del proprio cerchio inventivo conosce il diverso; due ispirazioni, due modi di porsi davanti al reale, due dissimili distanze si alternano, s'inseguono, fissano punti successivi e variati di un unico cammino.
Ma come la tékhne dell'acquarello è adombrata sul traguardo di una materia che tende a darsi il meno possibile in proprio, ossia nella risonanza tutta aerea e trasparente del timbro (Paesaggio dagli orti belli e Dalla Fortezza Albornoz) l'acquaforte colorata a monotipo è spinta, invece, oltre la scacchiera del bianco e nero, a valersi di accenti stinti, piegando il tratteggio a suggerire gradazioni d'intensità cromatica. Ora in Concerto d'alberi del 1997, Sensazioni in violetto del 1998, Paesaggio dell'anima del 2002 e Campagna urbinate del 2005, le stanghette nitide dei tratti, rincorrendosi come fili di pioggia, addensano e diradano la luce emanata dal fondo della carta, e la nuance degli incroci filtra lo spessore di un vetro, accende i riflessi, suscita le ombrature leggere che si posano – fugaci come di una nuvola che passa – sulle forme appena tracciate degli oggetti e delle colline.
Se l'oggetto non è differenza e distanza fatta di forma, ma eventum epifanico dell'interna movenza del formarsi dell'immagine per via di colore, di apparenza luminosa, il paesaggio conserva l'impronta di antiche geometrie che prendono il sopravvento sulla misura classica, quasi leopardiana, del suo mondo interiore. Qui c'è una larghezza d'impianto, sobria e meditata, che nasce dal ritegno definitivo di Lani a intendere i frammenti di natura come schegge poliedriche capaci di uno spazio totale e stringente, e garantito dal pensiero come per minima, ma ineluttabile cosmogonia. In entrambi i generi, però, la luce – clarus candor – è spiritualità, è volo, ciclo, trasparenza. In effetti, nelle opere degli ultimi anni – da Prime ore a Paesaggio con violette, da Magica luce a Urbino a Freddo azzurro a Pallino – Lani interna la luce alla materia diafana, fonde il terrestre e l'aereo, la corporeità e la leggerezza. Lo fa in un percorso breve ma foltissimo di acquarelli e di monotipi, dedicandosi sempre più a smaterializzare la sostanza policroma, a renderla più sottile, soffiata, come deposta con delicatissima e lenta filtrazione, con pennelli sfioranti, in spessori senza spessori, nei quali si compie poeticamente – per dirla con Rilke – «l'apertura silenziosa degli interspazi dell'anima».
Floriano De Santi
Giugno 2006